Michela ha affrontato un trapianto di midollo per sconfiggere la leucemia

Il primo incontro con la malattia, anche se in quel momento non la riconobbi, fu durante il cammino di Santiago de Compostela. Ho sempre fatto l’allenatrice di fitness per lavoro: adoro l’attività fisica e l’aria aperta. Il cammino fu un’esperienza bellissima, fisicamente ed emotivamente. Purtroppo per gran parte del viaggio soffrii di un terribile mal di denti causato da un ascesso.
Tornata a casa andai a curarmi e feci gli esami del sangue. Scoprii che avevo i valori fuori posto, ma non gli diedi molta importanza al momento. Chi sta bene tende a dare per scontata la propria salute. È difficile credere di poterla davvero perdere dall’oggi al domani, all’improvviso. Ripresi la mia vita come niente fosse, fino a quando, quasi un anno dopo, andai a donare il sangue per un amico e i medici mi dissero che non potevo donare: avevo i valori sballati, di nuovo. Fu allora che scoprimmo la malattia. Una leucemia acuta atipica.
Nell’ospedale in cui rimasi in cura per oltre un anno dopo la diagnosi, le terapie che mi offrirono non furono in grado di arrestare la malattia, ma per i medici non c’erano alternative: il trapianto era considerato impossibile, visto che non avevo fratelli e quindi non c’era un famigliare che potesse fare da donatore compatibile. La mia salute continuò a peggiorare, mese dopo mese. E io persi ogni speranza. Ero più di tutto stanca, troppo stanca per cercare altre soluzioni. Per fortuna mio marito mi diede la forza per continuare a lottare: leggemmo su un giornale dell’attività di una ricercatrice che si occupava di leucemie al San Raffaele di Milano e le scrivemmo.
Ci spiegò che la ricerca di cui avevamo letto era ancora lontana dall’essere una cura disponibile per i pazienti, che non era ancora abbastanza sicura, ma mi fece subito contattare da un medico, il professor Fabio Ciceri, che mi propose di venire per un consulto.
Era il 7 aprile del 2016 quando arrivai al San Raffaele per quella prima visita. L’incontro con Ciceri fu straordinario fin da subito, per l’attenzione con cui mi visitò e la totale disponibilità umana e professionale ad aiutarmi. Mi disse di contattarlo il giorno dopo, che avremmo deciso insieme come procedere. In quel momento non credo fossi consapevole della gravità della situazione. La settimana seguente, il 14 aprile, venni ricoverata.
Sono rimasta nell’unità trapianti del San Raffaele per 5 mesi, senza mai mettere piede fuori. Ho fatto cicli di chemioterapia, radioterapia e poi un trapianto aploidentico dal mio fratellastro più giovane, anche se non era compatibile al 100%. Il trapianto è stato tutt’altro che una passeggiata: ha scatenato una vera e propria guerra nel mio corpo. Una guerra che abbiamo combattuto insieme, io e mio marito, i medici e gli infermieri del reparto, i volontari, tutti. Una guerra che una notte, per poco, abbiamo rischiato di perdere ma che alla fine abbiamo vinto, e non solo grazie alla competenza straordinaria dello staff medico ma all’amore che ognuno di loro mette nel suo lavoro. Ho conosciuto un luogo dove accadono cose speciali e ricco di persone speciali, che ricorderò per ogni carezza, ogni sorriso e ogni attenzione.
Oggi posso dire che il peggio è passato. Certo, ci aspettano – a me e a mio marito, che ha attraversato ogni attimo di questa avventura insieme a me – ancora tanti anni di controlli.
E rimane la paura, quella è l’ultima ad andarsene. Ma so anche che affronteremo le sfide con una forza e un’energia nuove, perché adesso sappiamo di non essere soli.
Michela